sabato 22 novembre 2008

Foglie d'autunno (musica: Foglie di Beslan - G. Allevi)

Un vento come solo sa essere il vento qui dalle mie parti. Discende dalle montagne e viene incanalato nella strettoia della Valle, dove si riversa con tutta la sua forza e velocità. Un vento elettrico che fischia, ulula, si infiltra soffiando in ogni fessura. Che fa tremare i vetri e scardina le persiane. E porta via con sé, lontano, tutto quello che incontra. Tegole, tettoie, rami, immondizia. E foglie. Le foglie d’autunno. Un vento da stare chiusi in casa. E intanto, Morricone che suona.

Un vento che di giorno non ti fa ragionare. Proprio nel giorno in cui uno dei miei miti venne assassinato. Anzi, no. Nel giorno in cui un uomo venne assassinato, diventando uno dei miei miti. Nel giorno in cui ho paura per un altro uomo che me lo ricorda molto da vicino. E allora leggere, e poi leggere ancora. Leggere tra le righe. Le righe di un biglietto a/r per Lione. O magari per Rio de Janeiro. Sola andata. E intanto, vecchia musica dal giradischi.

Un vento che di notte non ti fa dormire, nonostante il profumo delle lenzuola pulite. E quindi scrivere, scrivere, e poi scrivere ancora. Scrivere, per non pensare. Spostare la notte più in là, e dopo cancellare tutto. E intanto, la musica in cuffia. E lui che disse: «Non voglio più sentirti parlare. Voglio sentire parlare di te». Proprio come le foglie d’autunno. Già, le foglie d’autunno. E ancora, musica da film.

Foglie d’autunno nel vento. Foglie colorate che turbinano libere e si ammassano lungo la cancellata. Oppure una ad una, prese in ostaggio, prigioniere del vento che ne fa ciò che vuole. Tra una caramella e una bomba a mano. Ma loro, le foglie d’autunno, lo sanno. E si lasciano prendere docilmente per mano e trasportare verso il loro destino. Innocenti. Proprio come bambini sorridenti e un po’ impauriti, il primo giorno di scuola.

mercoledì 5 novembre 2008

In ogni caso, sono molto più avanti di noi.

«American people have spoken, and they have spoken clearly. A little while ago I had the HONOUR of calling Sen. Barack Obama to congratulate him on being elected the next President of the country the we both love».
Sen. John McCain.

Qui da noi in genere chi perde dice che non è possibile, che è colpa dei brogli e che bisogna ricontare le schede.

martedì 21 ottobre 2008

Cioè, dico, guardate che posto!

Oggi io voglio andare qui. Ecco.

lunedì 13 ottobre 2008

Memories from Vietnam. (musica: The end - The Doors)

Gli elicotteri militari volavano bassi, avanti e indietro, senza sosta. E dietro, la giungla in fiamme. Un fumo nero da soffocare. Napalm, figliolo. Non c’è nient’altro al mondo che odora così. E anche questa volta li abbiamo respinti, sai? Ma quanto durerà? Hai avuto fegato, figliolo. Se tu non fossi andato in avanscoperta l’intero plotone sarebbe caduto nell’imboscata. Maledetti musi gialli. E maledetta questa giungla umida fatta di palme, palme e ancora palme, che ci costringe ad avanzare lenti a colpi di machete e a difenderci dalle imboscate di Charlie. Presto morirai, figliolo, qualche minuto al massimo. Ti hanno cacciato un intero caricatore nello stomaco, quei bastardi. Ma ti invidio. Perché sei un duro, adesso sei veramente un duro. Forse. Anche se non è servito a niente. Perché sai, a breve saremo costretti ad andarcene da qui. Abbiamo perso. E lo sapevamo fin dall’inizio. Il mondo ci vedrà in fuga, magari ammassati sulla scaletta che porta sul tetto della nostra ambasciata a Saigon, dove sarà pronto l’ultimo elicottero con le pale già in movimento. Conigli impauriti. Così, ci ricorderanno da queste parti. Perdenti. Oltre che invasori, naturalmente. E io ho paura, figliolo. Non di morire in questa fottutissima guerra, ma di sopravvivere dopo tutto quello che ho visto. Dopo i villaggi che ho incendiato, dopo le bambine dagli occhi a mandorla violentate dai nostri e poi bruciate vive, dopo aver visto te e molti altri dei miei uomini morire con le budella di fuori. Dopo le torture inferte e subite, dopo le marce massacranti durante la notte, dopo tutta la puzza chimica che ho respirato. Sto impazzendo. Ascoltami, figliolo. Ti prego. E bevi un sorso d’acqua dalla mia borraccia, cazzo, aspetta ancora un attimo prima di crepare. Ho paura di tornare a casa, perché questa guerra ci è entrata dentro, ci ha cambiati. Perché lo so che non riuscirò più a vivere senza i miei uomini. Perché lo so che non avrò mai più il coraggio di guardare i miei figli negli occhi. E lo so, già lo so che ogni notte mi sveglierò di soprassalto, con la testa martellata dal flap flap degli elicotteri e negli occhi il movimento ipnotico delle loro pale. E seduto nel buio della mia stanza, ci metterò un po’ a capire che invece si tratta soltanto dello stupido ventilatore da parete appeso sopra alla mia testa. Ora non mi senti più, figliolo, ma sappi che ti invidio. E che Dio ci benedica.

Gli elicotteri militari volavano bassi, avanti e indietro, senza sosta. E dietro, la giungla in fiamme. Un fumo nero da soffocare. Si chiama Vietnam, figliolo. Alla fine il Vietnam è tutto qui.

lunedì 6 ottobre 2008

Torino: altro giro, altra corsa.

Prima notte. Pur mancando il mio room-mate, non ero solo. Al di là del muro, infatti, un piccolo esserino mi teneva a suo modo compagnia. E la scena che si presentava era molto molto simile a questa.

sabato 27 settembre 2008

Chapeau

giovedì 11 settembre 2008

Nineleven*

«Cut them off!»

* foto di Joe McNally

lunedì 1 settembre 2008

E con questo, cara Sverige, ti saluto. Ti ringrazio. Ti abbraccio. (musica: Stad I Ljus - Tommy Körberg)

Sappiate che:
- Il post che segue non dirà niente a nessuno, o quasi.
- Il post che segue è patetico, lo so, ma dovuto.
- Potete alzare il volume, se volete.

Grazie per il verde, la luce fino a tardi e l’aria pulita. Per i laghi e le casette rosse senza recinzione, per l’ordine e per la pulizia. Grazie per la civiltà e per il rispetto delle regole. Grazie agli animali -ricci, cerbiatti, lepri e scoiattoli- che popolano il Ryd e la foresta circostante e che spesso fanno capolino. Al totale senso di libertà e al vento, che non importa dove stai andando, ma soffia sempre nella direzione contraria. Grazie alla mia fedele bici, e grazie al turco che ha rubato quella di Albi e non la mia. Grazie alle pizze surgelate e ai sughi Barilla che mi hanno permesso di sopravvivere in questi mesi, alle fike di Joakim e alle polpette di Mamma Ikea. Grazie ai dolci alla cannella e alla green-cake, e ai panini di Subway. Grazie al Karallen e al kebab nei venerdì di quaresima, alla salsa rosa sui pomodori e al burro salato sul pane. Grazie anche all’immancabile gara dei vassoi e al Systembolaget, e naturalmente alla vodka russa. Grazie ai Simpson e alle pubblicità della Telia, a Pimp My Ride e alla sceneggiata sempre uguale che fanno quando il proprietario vede la sua macchina rifatta. Grazie a Mr. Big, ad Allevilive e ai Baustelle. Grazie a Facebook e a Guoyou, che possiede l’archivio completo di tutti gli abitanti di Linkoping: ogni cosa, persona o animale abbia mai transitato da queste parti, la puoi trovare tra i suoi friends. Grazie ai miei compagni di korridor, quelli vecchi, quelli nuovi e quelli acquisiti. A Dome e ai suoi pazzi amici, all’immancabile Pigro, a Lisa, alla Sophie e ad Alex. Grazie alla piccola Yuri per la pazienza con cui mi ha insegnato a mangiare con le bacchette, e a Shiho per avermi fatto cambiare idea sui giapponesi. Grazie a Veronika per la partita a Risiko fino alle 5 di mattina, e perché in 10 minuti ha reso il mio korridor più pulito di come non fosse mai stato negli ultimi 6 mesi. Grazie a Trento e a sua sorella, perché quando litigavano tra loro in dialetto stretto erano fantastici. A Fanny e al suo metodo particolare di vendere le birre ai party di benvenuto: una la vendeva e una la beveva. Grazie a Kent per nascondere dentro a un corpo da hooligan danese un animo gentile e a Tanja per quel suo nonsochè. Grazie anche agli aforismi di Fabrizio, a Salvo, Paolo, Lilly e a tutti gli altri italiani. Grazie ai mille party e alle foto di rito, alle serate a scaldarsi intorno al fuoco del barbecue e agli ubriachi che cadono dalla bici il venerdì notte. Grazie alle bionde (quelle magre) di esistere, all'HG e ai timbrini ricopiati sulla mano per entrare alle feste senza biglietto. A Superafrica, Lara Croft e alla cicciona del karaoke, e alla sua tv da 50 pollici. Grazie alla notte in cui abbiamo cantato questa canzone abbracciati in cerchio inventando le parole, ubriachi e felici, mentre fuori albeggiava. Grazie all'atmosfera internazionale e a tutte le persone provenienti da ogni parte del mondo che hanno incrociato la mia strada, chi più a lungo, chi solo per un attimo: ad ognuna di esse mi lega un ricordo. Grazie anche ai nuovi erasmus, perché li vedi che sono esattamente com’ero io all’inizio: stanchi, spaesati e incapaci di esprimersi, ma curiosi ed entusiasti di incominciare quest’avventura, con ogni giorno una cosa nuova da scoprire. Grazie ai colleghi d’ufficio, alla delicatezza disarmante di Ruth, alla spontaneità di fuck-shit-Sharon e alla flemma di Davide. Un grazie sentito anche a Checca e alla sua perenne indecisione, e a Beppe con il suo odio profondo per la Svezia. Grazie agli ‘hej hej’, ‘jätte bra, ‘femtifem’, ‘duppiduppidù’ e ‘dududududu’ sfogliando le pagine, nonché allo strano suono emesso per manifestare stupore, impossibile da rendere su carta. Più in generale grazie alla lingua svedese che, pur non avendo imparato, potrei ormai riconoscere tra mille per la sua caratteristica melodia. E ancora, grazie ai viaggi incredibili che ho fatto e alle persone fantastiche con cui li ho condivisi. E al mio zaino verde da babbo riempito fino all’orlo. Grazie al sole di mezzanotte, allo spezzatino di renna e all’inquietante terra di nessuno tra Russia e Finlandia. All’azzurro dei palazzi di Pushkin, alla Prospettiva Nevskij e alla Piazza Rossa quando è sera. Grazie anche ai tram notturni di Goteborg e alle taverne di Nyhavn, popolate da marinai tatuati e donne di malaffare (o almeno così diceva la guida…). All’opprimente Duomo di Colonia e ai colori pastello di Gamla Stan che si specchiano sull’acqua, nonché a quel giro di fisa che continuerò inconsciamente a canticchiare fino alla fine dei miei giorni. Grazie alla Viking Lines e a Laurie, Xavier, Florian e Ilka. Grazie a Davide e Fra. Grazie a chi, altrove in questi mesi, ha vissuto e provato almeno in parte le stesse cose che ho vissuto e provato io. Grazie a tutte le cose e le persone di cui non ho scritto, che mi verranno in mente non appena avrò pubblicato questo post, e grazie anche a quelli che non ho nominato ma che sanno che li sto pensando in questo momento. Grazie infine ad Albi, co-protagonista di molte delle cose scritte sopra e compagno leale durante questo soggiorno. Per tutto questo, grazie.

giovedì 28 agosto 2008

All'improvviso, in una frazione di secondo. Ho realizzato.

E mentre pedalavo per andare in università, ero esattamente questo pezzo di questo film:

"Cos'altro fa il nostro matto? Piange? No! Ha solo gli occhi un pochino lustri per via dell'enorme velocità. E' chiaro! Comunque no, mica piange... E poi è un Girardengo, cazzo! Dio come fila adesso! Dico, ma lo vedete? Ma si, lasciamolo correre questo ragazzo. E date retta al sottoscritto, che lo conosce da sempre: se ha gli occhi un pochino lustri, è per via che il vecchio Alex, quando fila così...è come il vento."

venerdì 22 agosto 2008

Update

Io: "Lunedì prossimo mi venite a prendere all'aeroporto di Bergamo?"
Mamma: "Sei grande e vaccinato, puoi benissimo tornare da solo"
Io: "Ma arrivo la sera tardi, e non ci sono più mezzi per tornare!"
Mamma: "Devo rinfrescarti la memoria sui miei viaggi di quando avevo la tua età?"
Io (in tono sarcastico): "Beh, allora vorrà dire che passerò la notte in aeroporto, e il mattino dopo prenderò bus, poi metropolitana, poi treno, poi altro treno, poi altro bus e finalmente, dopo 5-6 ore, arriverò a casa..."
Mamma: "Bravo, mi sembra un'ottima idea"
Io: "Beh, se l'aereo cade, perlomeno non ho più il problema di come tornare a casa..."
Mamma (scherzando ma non troppo): "Vedi di non cadere, che se no è una rottura, perchè poi ci tocca venire fin lì per il riconoscimento salme".

giovedì 21 agosto 2008

Facebook style

Giacomo ha da poche ore saputo del tragico incidente aereo avvenuto a Madrid.

Giacomo ha appreso che si tratta di una compagnia low cost che, messa in ginocchio dal caro petrolio, aveva probabilmente risparmiato un po' troppo sulla manutenzione del velivolo.

Giacomo ha appreso che la compagnia in questione si chiama Span-air.

Giacomo ha da pochi giorni aquistato un biglietto aereo della compagnia low cost Ryan-air.

Giacomo ora ha una fottutissima paura.

martedì 5 agosto 2008

Gocce

Ma quando alla celebre goccia
di profumo prima di andare a letto
si aggiunse un'altra goccia e una cascata
di veleno misto a noia e tenerezza...
...che nostalgia.


giovedì 31 luglio 2008

La Malpy, La Amsty, La Linko

La Malpy: una lunghissima notte! Perché c’è un’afa terribile e perché tutti i sedili comodi sono occupati. E perché anche tutti i sedili scomodi ma con vicino una presa sono occupati. Scelgo a casaccio, mi siedo accanto a un ragazzo indiano che sta studiando al computer. STUDIANDO. Cioè, sono le 11pm del 31 luglio in un aeroporto, e lui sta studiando. Programmazione, o qualcosa del genere. La cosa mi irrita parecchio sia perché senza attaccarmi alla presa non posso guardare i miei film, sia perchè mi rendo conto sempre di più che gli indiani e i cinesi a breve conquisteranno il mondo. E dire che in centroeuropa c’è persino chi, ignaro, li alleva e li accudisce con amore… Dall’altra parte una ragazzina americana parla al cellulare con la madre. Con le cuffie nelle orecchie e l’ipod rigorosamente spento seguo con curiosità le vicende e i racconti della fanciulla, e dopo un’ora e mezza di telefonata so tutto di lei e del suo cugino italiano Ciussappe (Giuseppe), che è appena andata a trovare in Sicilia. Mi annoio e sono stanco, ma sto troppo scomodo per dormire. Alle 3am l’indiano stacca finalmente il suo computer, e io riesco a guardarmi in santa pace un paio di film prima di imbarcarmi.

La Amsty: pauuula! Immenso centro di smistamento verso tutt’Europa e verso le Americhe. Da un estremità all’altra dell’aeroporto sono circa 45min a piedi: l’ideale per chi ha una coincidenza un po’ “stretta” da prendere. Ma è l’aereo per Linkoping a lasciarmi senza parole. Cioè, io non avevo grosse pretese, mi sarei accontentato del solito 737, un aereo modesto, ma che il suo sporco lavoro lo porta sempre a termine. E invece no, il mezzo in questione (perché di aereo non si può parlare) si chiama CityHopper. Per farvi un’idea, potete immaginarvi qualcosa di simile a un aliante o a un deltaplano, vedete voi. All’interno una ventina di posti e una sola hostess, in qualità di tuttofare. Con queste fantastiche premesse, a cui si sono aggiunti la foratura di una ruota poco prima della partenza e sinistri cigolii provenienti dalle ali, temevo seriamente di dover pedalare durante il decollo!

La Linko: casa! Sospinto dalle preghiere dei passeggeri l’aereo, anzi il CityHopper, raggiunge il piccolissimo aeroporto di Linkoping, dove atterra con qualche difficoltà alle 11.30am. Puntuale. Ci infiliamo in una casetta grossa come il mio garage, che è l’edificio principale dell’aeroporto, in cui ci vengono consegnati a mano i bagagli, una decina di valigie in tutto. Poi via di corsa verso casa. Fuori è tutto come l’avevo lasciato: il sole, il vento, i boschi e il cielo limpido. Sembra la più grossa delle banalità ma non lo è.
Perché non c’è niente da fare: qui si respira un’aria diversa.

lunedì 14 luglio 2008

Road to Las Vegas

Più alto delle case, più alto delle nuvole, più alto del cielo. A sfidare i colori e le luci del tramonto. A sfidare Dio.

Just there, just on the road to Las Vegas.

* foto di Albert Watson

domenica 29 giugno 2008

Cose così

Sono in Italia da 3 giorni e ci rimarrò fino a fine luglio.

Fa un caldo porco. Questo fatto, unito all’improvviso stravolgimento di ambiente, routine e ritmi di vita, sta causando la mia trasformazione in larva, in perenne sciabattare tra letto e divano.

Ho rivisto e rivedrò con piacere tante persone.

Alle 10 di sera fa già buio.

Qui esistono lavapiatti e bidet, per fortuna.

Non esistono invece i Singoalla e le kotbullar, purtroppo.

Non sono più capace a guidare.

Durante la mia assenza sono comparse 2 nuove rotonde, 1 nuovo semaforo e 1 nuovo supermercato. E una nuova automobile.

Il mio benzinaio mi ha guardato con aria perplessa quando, abbassando il finestrino, l’ho salutato con un caloroso “hej hej!”.

Ma quanto è grande l’aeroporto di Amsterdam?

Scrivo questo post sotto forma di elenco puntato, quindi vuol dire che sto ritornando nei panni del grigio ingegnere.

Questo va bene per Pippo.

Questo va abbastanza male in generale.

Non voglio fare quello che parla male a tutti i costi del suo Paese, perché detesto questo tipo di comportamento. Però un paio di cose le voglio dire, proprio perché amo l’Italia e mi dispiace vederla ridotta così.

In Italia non funziona niente. Poi è chiaro che uno ci fa l’abitudine, si rassegna, e non se ne rende più conto, ma la verità è questa: in Italia non funziona niente.

L’esercito pattuglia le strade delle principali città italiane. Questo non succede in nessun altro paese cosiddetto civile e occidentale, Israele a parte (ma là hanno ben altri problemi). E’ invece prassi comune in tutte le dittature odierne sparse per il mondo (e non venitemi a dire che la criminalità nelle città italiane è maggiore di quella delle banlieues parigine, o delle periferie di Londra, o del Bronx). Senza contare il fatto che far svolgere a dei soldati incarichi da nonno-vigile o da poliziotto di quartiere mi sembra abbastanza lesivo della loro dignità.

Mentre gli italiani si drogavano di Europei, Lui ha preparato una legge che, oltre a bloccare i restanti processi a suo carico in corso (gli altri li aveva già bloccati nelle legislature precedenti), vieta quasi del tutto le intercettazioni e limita fortemente la libertà di stampa. Solo per fare un esempio, se questa legge fosse già stata in vigore, i vari Moggi, Ricucci, Fazio, e anche i medici che ammazzavano i pazienti nella rinomata Clinica Santa Rita, non sarebbero mai stati scoperti e sarebbero tutt’oggi al loro posto a continuare i loro loschi traffici. E nessuno ne avrebbe mai saputo niente. Questa non è una cosa di destra o di sinistra: questa è una cosa sbagliata.
Sentitevi orgogliosi voi che l’avete votato.

lunedì 23 giugno 2008

Into the wild: Lapland & Me

Lapponia svedese. Terra di laghi e fiumi. Dove le distese di conifere cedono il posto ad arbusti bassi, muschi e licheni. La tundra. Terra di renne e di alci, di volpi e di orsi. E di zanzare feroci. Terra di cacciatori. Un’unica strada, un’unica ferrovia, ogni tanto una casa. In legno, naturalmente, con il muschio al posto delle tegole. Terra di vecchi Volvo scassati. Terra di miniere e di montagne innevate sullo sfondo, terra silenziosa. Di un silenzio infinito, irreale. Indigestione di carne di renna.

Lapponia norvegese. Terra di boschi rigogliosi e foreste di pini. E di mare. Terra di neve che si specchia nell’oceano atlantico. Dove la convivenza della calda corrente del golfo con il freddo polare crea un paesaggio da togliere il fiato, in un matrimonio perfetto tra mare e montagna. Terra di cacciatori di balene e pescatori, terra di fiordi. Casette colorate invecchiate dal sole e dal gelo. Indigestione di salmone affumicato.

Incredibilmente diverse, terribilmente suggestive. Natura selvaggia e incontaminata, a 200 km oltre il circolo polare artico. Più a nord di qui non c’è molto: Babbo Natale, Nordkapp, poi ancora il mare, poi i ghiacci polari. E poi Dio. La Lapponia è vedere paesaggi che non pensavo potessero esistere davvero, pur bazzicando la montagna fin da bambino. Perché non te la puoi immaginare finché non ci vai. Lapponia è non incrociare nessun’altra macchina per 120km, o scorgere in lontananza i resti di vecchi accampamenti Saami. E’ frenare di colpo e spegnere il motore, e guardare trattenendo il respiro una famiglia di renne gironzolare incuriosita intorno alla macchina e sbirciare dentro dai finestrini, e poi attraversare. E’ sdraiarsi sulla riva di un lago aspettando la mezzanotte, e vedere il sole ricominciare a salire nel cielo senza essere tramontato. La Lapponia è una terra difficile, al di là del clima. Che ti rimbambisce, ti sfasa. Perché qui non hai più punti di riferimento, non capisci più che ore sono, se è giorno o se è notte, se devi dormire o star sveglio, aver sonno oppure no, se devi dire ieri o oggi. Qui non capisci più niente. Ma più di tutto, la Lapponia d’estate è luce. Una luce che non ha eguali, che a parole non si riesce a spiegare, perché devi vedere, la devi vedere, perché se non vedi non credi, non sembra possibile. Una luce che è inutile farci le foto, che tanto non riesci a catturarla, a fermare in un click quella miriade di colori, di movimenti, di sfumature. Una luce che non ti da un attimo di tregua. Ti entra dentro, ti costringe a guardarla, ti obbliga, ti grida. E allora togli gli occhiali e apri gli occhi, e tienili spalancati più che puoi, anche se ti acceca, anche se ti fa starnutire, anche se speri e hai paura che servirà, fino a quando è di nuovo mattino, fino a quando il sole tramonta, fino al prossimo autunno, fino a quando diventerai grande, fino alla nausea, fino a quando non ce la fai più, che ti da fastidio, che sei quasi cieco, che è ora di andare.
Spalanca gli occhi a più non posso, per riempirti gli occhi di Svezia e non perderne nemmeno una goccia.

Perché dei colori come in Lapponia d’estate, io non li avevo visti mai.

sabato 31 maggio 2008

Maja vestida vs. Maja desnuda

Questione di gusti...

* foto di Elliot Erwitt

mercoledì 28 maggio 2008

Sono entrati e hanno visto*


Sono morto. Guardami, sono qui. Immobile, appena sotto il pelo dell’acqua. L’acqua di un fosso costruito per impedire ai detenuti di evadere. Sono morto, anche se sembra che stia dormendo. Sono morto di morte violenta, mi hanno ucciso a sangue freddo. Sono arrivati pochi giorni fa, il 29 aprile. Di domenica. Parlavano la lingua del nemico, erano in tanti. Non abbiamo posto una gran resistenza. Qualcuno dei miei compagni era riuscito a scappare prima che arrivassero, qualcun altro aveva troppa paura. Io avevo troppa paura. Così ci siamo arresi, e loro sono entrati senza difficoltà. Sono entrati e hanno visto. E poi ci hanno ucciso, a sangue freddo. Uno ad uno. Noi, che non avevamo sparato un colpo, che non gli avevamo fatto niente. Mi hanno sparato a bruciapelo e poi mi hanno gettato nel fosso. La mia divisa non serve più a nulla ora. E’ strappata. La mia divisa mi ha tradito. Io, che ero un uomo come voi e come loro. Semplicemente nato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma questo io non lo sapevo, pensavo di essere nel giusto. Io ero nel giusto. Ho sempre fatto il mio dovere. Io ero un bravo militare e un bravo marito. E un bravo papà. Io ero orgoglioso di essere tedesco.

Io ero una SS, facevo il guardiano al campo di Dachau.

* a chi c'è stato, anche se tanti anni dopo
** foto di Lee Miller

venerdì 16 maggio 2008

America

Se esistesse la macchina del tempo (Diego, a che punto sei?...) vorrei essere catapultato in America. Senza dubbio. Ma non un’America a caso, nossignore. L’America. L’America dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King. Di quando gli ideali non erano ancora luoghi comuni. L’America dei pazzi e dei complotti, veri o presunti. Degli scandali. L’America del primo uomo sulla luna e della guerra fredda. Si può avere nostalgia di guerra fredda? L’America delle manifestazioni e del Vietnam. Sì, il Vietnam. L’America della rivoluzione dei costumi. L’America di Woodstock, delle prime minigonne, delle polaroid. L’America di Andy Warhol e di Edie Sedgwick. L’America del cinema, quella di Breakfast At Tiffany’s e quella di The Graduate. L’America di Like A Rolling Stone e di Mrs Robinson. L’America del mito di Marilyn Monroe.

Insomma, l’America degli anni ‘60.


mercoledì 14 maggio 2008

La fika svedese

Quello che segue è un post appetitoso. Non nel senso che voi monelli state immaginando, bensì perché tratta di cibo. In lingua svedese infatti il termine ‘fika’, difficilmente traducibile in italiano, sta ad indicare una sorta di merenda, una pausa, un momento di relax. Durante la fika si mangia qualcosa di dolce, si beve e si chiacchiera in un’atmosfera conviviale e gioiosa. E badate bene, in Svezia la fika è una vera e propria istituzione! Altrove ci si riunisce intorno ad un falò, o intorno a una chitarra, o intorno a uno spinello (o anche intorno alle tre cose contemporaneamente...). Qui in Svezia è diverso, qui in Svezia ci si riunisce per la fika.
Nel mio korridor la fika si tiene ogni domenica sera. Alle 8pm precise tutti i korridor-mate, anche quelli che di solito non si fanno mai vedere, emergono dalle loro camere e prendono posto sui divani della sala, in paziente attesa. Come in una cerimonia, il responsabile della settimana (ci sono dei veri e propri turni, ogni settimana tocca a uno diverso) tira fuori ciò che ha preparato e lo sottopone all’assaggio e al giudizio degli altri. Giudizio che in genere è severissimo! La tipologia di dolcezze preparate varia in funzione della fantasia del responsabile in questione, del tempo che ha a disposizione e dei soldi che è disposto a spendere. Si va da banalissimi biscotti comprati all’Hemköp (il supermercato) a crostate con la marmellata, da cibi pronti fino a torte ben più elaborate. Tanto perché possiate farvi un’idea, ecco le foto di due fike-tipo: la prima rappresenta ciò che in genere preparo quando è il mio turno, mentre la seconda immortala quella che per ora è stata giudicata all’unanimità la fika più gustosa dell’anno nel nostro korridor. Dite che dovrei metterci un po’ più di impegno?
Durante la fika si mangia, è vero, ma non solo. La fika è anche un momento di chiacchiere e discussioni, essendo spesso l’unica occasione della settimana in cui sono presenti tutti i mates. A volte si parla del più e del meno, a volte si guarda tutti insieme uno stupido programma alla tv, altre volte ci si inoltra in argomenti più complessi e ‘seriosi’. Ne sono uscite anche alcune interessanti seratine a tema, e in due di esse ho modestamente fatto da cicerone: si parlava, indovinate un po’, di pizza e di mafia...


lunedì 12 maggio 2008

Berlin, 1948, military airport of Gatow

Helga Schneider

giovedì 1 maggio 2008

Drunk shuffle

1am. Scriverti, prima di andare a dormire. Che non capisco più niente. Che domani parto, scappo. Tanto per cambiare. Tanto per, ancora una volta. Che è venuto il tempo di andare. Quando spero che ogni giorno sia quello buono. Quando spero di trovare un senso, anche se questa sera un senso non ce l'ha. Not at all, fuck! Quando
2,5 litri di birra, quando la Champions. Mentretutticorrevanoalriparo, eilnostroamoreèpolveredasparo.
Quando. Quando dieciminuti fa ho rischiato un frontale con la bici. Shuffle. Your canoeing trip. Hey Stella, hey Stellaaaaaaaaaaaaaaa!! Quando non va come deve andare, come sempre. Ma non piangere per me, summerlove. Quando devo finire di preparare lo zaino. Quando ho troppo da pensare. Lei però non piange mai. Quando non ne ho voglia. Quando. E la notte di chi non ha niente. Quando ho un sonno da chiudere gli occhi, e fuori c'è festa. Tradire e fuggire. Come gli aeroplani, sì, come gli aeroplani. Quando domani andrà meglio. Quando è una figata. Una figata. Un famosissimo attore americano. Ah, dimenticavo che: 6 giugno, San Siro. Quando un po' di tempo fa. Se si alzasse un po' il vento. Cercare un’anima e trovare un ingranaggio. Quando dovevano fare da loro, fu allora che presero il volo. Qui fuori, distanti anni luce, in silenzio perfetto. Canzone, e nell'aria ancora il tuo. Quando fuori è un mondo fragile. Profumo dolce, caldo, morbido. Quando la voglio fare tutta questa strada. Quando mai più. Certe vite sfumano. Quando ti viene da vomitare. Parole che non sanno dove andare. Quando c’è gente che ha avuto mille cose. Quando. Quando ti devo salutare. E se non hai niente da dire, va beh, non dire niente. Che alla fine non si piange neanche più. Quando adesso è tardi, adesso torno al lavoro. E mai che mi sia venuto in mente...so sorry!
Insomma, have a good night.

giovedì 17 aprile 2008

Oh Mother

Immagina. Immagina tre città concentriche, una dentro l’altra. Il potere, poi il denaro, poi il nulla.
Al centro una cittadella fortificata, il Cremlino. Solo due accessi, soldati armati ovunque. All’interno delle mura monumenti, chiese ortodosse incredibilmente affrescate e giardini. E poi i palazzi del potere, naturalmente. Immagina di non poter gironzolare a caso, ma di dover seguire un percorso guidato. Che se sgarri, subito una guardia dà fiato al suo fischietto imbracciando minacciosamente il mitra. Immagina di passeggiare esattamente nel luogo dove personaggi come Lenin, Stalin e Gorbaciov hanno vissuto e fatto la Storia. Di fotografare gli edifici dove Breznev decideva le sorti del mondo durante la guerra fredda. Impressione. Immagina di sentirti piccolo, insignificante di fronte a tutto questo. Il potere.
A ridosso del Cremlino, all’esterno delle mura, c’è il centro vero e proprio. Immagina il lusso più sfrenato, come solo a New York. Casinò, hotel di lusso, boutique. E poi di nuovo casinò, hotel di lusso, boutique. E’ un continuo. Ricchezza ostentata fino alla nausea. Immagina tante Bentley quante Punto a Torino. E alle Rolls Royce non fai neanche più caso, tante ce ne sono. Immagina di considerare un poveraccio chi scende dal suo BMW ultimo modello. Perché qui succede il contrario, noti subito chi ha una macchina sotto i cinquantamila euro, non sopra. Immagina cartelloni pubblicitari enormi appesi dappertutto. E poi ragazze, bellissime. E teatri, cattedrali, centri commerciali. Colori e luci. Quelli scintillanti delle vetrine e delle insegne e quelli antichi delle chiese e dei palazzi, altrettanto forti. Immagina undicimilioni di persone. La città più popolosa d’Europa. Ora immagina il traffico, e l’inquinamento. A ogni ora del giorno e della notte, senza tregua. Che se il semaforo è verde per i pedoni e sei sulle strisce puoi cercare, correndo, di attraversare la strada sano e salvo. D’altra parte non puoi mica pretendere che uno dei numerosissimi Hummer Limo si fermi per farti passare! Immagina di vedere e respirare l’odore dei soldi tutt’intorno. Ti resta attaccato ai vestiti, ai capelli, ti riempie gli occhi, ti tappa il naso e la bocca. Immagina di soffocare. Sì, il denaro.
Al di fuori del centro, separato da una cerchia invisibile di mura, c’è il nulla. Immagina senzatetto dappertutto, e risse. Ubriachi che si picchiano per strada, che si prendono a bottigliate per qualche rublo. E tu lo sai che al prossimo inverno più di metà di loro morirà per il freddo. Immagina di vedere ragazzini che sniffano colla in metropolitana e vecchie che rovistano nella spazzatura. Tutt’intorno casermoni popolari grigi e decadenti. Nessun turista. Immagina di avere una mappa della città scritta con l’alfabeto occidentale, mentre in realtà i nomi delle vie e delle fermate della metro sono scritti in cirillico. Che davvero non ci capisci un accidente. Immagina di perderti diverse volte. Di sentire tanti sguardi ostili su di te e di nascondere in fretta la macchina fotografica. Immagina di avere davvero paura. Il nulla. Immagina.

Ebbene, questa è Mosca. O almeno, la mia Mosca. In una parola, grandi contraddizioni. E’ da poco diventata la città nel mondo con più milionari e miliardari, superando NY, ma ha ancora problemi da terzo mondo. Basta pensare che anche negli hotel l’acqua corrente è marrone, fangosa e puzza di zolfo. E devi aspettare almeno 10 minuti prima di averla pulita (ma assolutamente non potabile!). E le insegne dei McDonald's in cirillico: la lingua del comunismo per il logo-simbolo del capitalismo, forse la contraddizione più grande. Mosca è una città di misteri, di spie, di silenzi. Di matrioske. Dove nessuno sa l’inglese e chi lo sa fa finta di non saperlo. Dove i turisti sono ancora visti come Il Nemico. Diffidenza estrema, quasi odio. Mosca è una città cattiva. Non brutta, tutt’altro. Ma cattiva, spietata. Perchè se non sei ricco o non sei russo, a Mosca non sopravvivi a lungo. Perchè Mosca ti schiaccia con tutto il suo peso.

Ma poi c’è la Piazza Rossa. La piazza più bella che abbia mai visto, in assoluto. Più bella delle piazze medievali della toscana e di quelle antichissime -sacre e profane- di Roma, che pur tutto il mondo ci invidia. Più bella di Piazza San Marco, Piazza del Duomo, Piazza Castello. Più delle festose piazze madrilene e catalane, di quelle impeccabili di Monaco e di Vienna, più delle trionfali piazze di Berlino. Più bella anche di Trafalgar Square e Piccadilly. Tutte fantastiche. Ma la Piazza Rossa è un’altra cosa. E’ La Piazza. E’ al centro di una città, è il centro di una città, è un’intera città. Penso che in quanto a prestigio solo Times Square regga il confronto, nel mondo (ma Times Square in realtà è un grosso incrocio, non è una piazza). La Piazza Rossa è Mosca. Ed è la Russia intera. Enorme e rettangolare, sempre affollata. Da un lato la Cattedrale di San Basilio, forse l’edificio più famoso della città. Poi una facciata del Cremlino, il mausoleo di Lenin, il museo di storia russa e il Gum (l’Harrods moscovita, ottantamilametriquadri di grandi firme). Provo a immaginare. Chiudo gli occhi e li riapro. Ora è notte, la piazza è deserta e illuminata. Inverno. Nevica, neve dappertutto. Sulle cupole della cattedrale, sulle guglie del museo di storia, sui tetti del Cremlino. Scricchiola sotto gli stivali di un passante infreddolito e si deposita sul suo colbacco allacciato stretto. Neve e silenzio. Di nuovo chiudo gli occhi e li riapro, indietro nel tempo. Ora è giorno, la piazza è completamente addobbata di bandiere rosse e migliaia di soldati sono sull’attenti, in riga. Parata militare, una delle tante. Al ritmo di una marcia militare carri armati, testate nucleari e soldati sfilano davanti al segretario generale del Partito. Dimostrazione di forza. Chiudo gli occhi e li riapro, un’ultima volta. I carri armati scompaiono, i soldati ridiventano turisti, le bandiere di regime tornano ad essere insegne pubblicitarie. Solo il mausoleo di Lenin rimane dov’è, esattamente di fronte all’ingresso del Gum. Che beffa. Il padre del comunismo sepolto di fronte a un centro commerciale di lusso, tempio del capitalismo e del consumismo più sfrenato. Di nuovo, grandi contraddizioni.
Benvenuti a Mosca.


lunedì 7 aprile 2008

Art Attack: toga toga toga!

Ciao bambini, vi ricordate di me? Sono proprio io, il vostro amico Giovanni Muciaccia! Allora, siete pronti per il prossimo attacco d’arte? Oggi vi insegnerò a preparare una vera toga. Sì, avete capito bene, una toga come quelle che portavano gli antichi romani! Siete contenti? E allora cominciamo!
Per prima cosa spogliatevi completamente, eccezion fatta per le vostre immacolate mutandine. Fatto? Bene! Ora prendete un lenzuolo bianco e piegatelo a metà lungo il lato più corto. Avvolgetevelo intorno alla vita ad altezza ombelico e, dopo un giro, fissatelo su se stesso con un paio di spille da balia. Fatto? Bene! Ora fate passare su una spalla la parte di lenzuolo che avanza, bloccandola nuovamente sul retro con un’altra spilla. Bambini, mi raccomando, usate sempre spille da balia con la punta arrotondata e assicuratevi della presenza di un adulto nelle vicinanze. Fatto? Bene! Prendete ora un lenzuolo colorato (preferibilmente rosso o viola) e adagiatelo sulla spalla rimasta nuda, come fosse un mantello. Trovata la posizione più confortevole e ottenuta una buona dose di panneggi potrete pinzare questo secondo lenzuolo a quello sottostante. Fatto? Bene! Bravi, avete appena terminato di preparare la vostra toga fatta in casa! Ma, bambini cari, non finisce qui: per aggiungere un tocco di originalità al vostro costume e risultare così irresistibili a tutte le fanciulle della festa potete realizzare una corona di alloro fai-da-te. Vi solletica l’idea? Allora, raccogliete nel bosco dietro casa tutte le foglie verdi che trovate (se siete in Svezia e c’è la neve questo sarà un po’ più complicato…). Poi appiccicatele con abbondante colla vinilica o scotch a un filo di spago, annodate e adagiate il tutto intorno alla vostra testolina. Fatto? Bene, ora siete pronti per andare a un toga-party!

Andata, 23:00. Terminata -come da istruzioni- la lunga vestizione e scattate le foto di rito i nostri eroi si dirigono, bottiglie alla mano, verso il korridor designato. Uno cammina più spedito, senza accorgersi che ad ogni passo la sua toga si sforma e scende di una spanna, iniziando a pucciare nelle pozzanghere. L’altro, dal canto suo, ha pinzato la toga troppo stretta sotto al ginocchio ed è costretto a procedere a piccolissimi passi, soffocato in quella sorta di tubino. Freddo, ma non così tanto.

Party: niente da dichiarare…

Ritorno, 5:30. Stanchi e frastornati i nostri eroi decidono di rientrare. Ora il freddo è reale e, per fare prima, i due sollevano le toghe ad altezza bacino e iniziano a correre.
Ragazzi, che spettacolo doveva essere vederli sgambettare nella notte svedese con le sottane al vento, le cosce nude e una manciata di foglie rinsecchite in testa!!

domenica 30 marzo 2008

Lago Roxen

Che forse un pezzettino di felicità è anche questo.
Pedalare sotto la pioggia fino alla riva di un lago incontaminato, immerso nel silenzio più assoluto. E da un pontile di legno affacciarsi, e guardare. Bagnato e intirizzito, congelate le mani, due fessure gli occhi. Guardare. L’acqua scura increspata dal vento e le nuvole che scaricano pioggia. L’orizzonte sfumato di grigio, un masso che emerge poco distante, due cigni indifferenti che si allontanano. L’altra riva laggiù in fondo. Guardare, al di là del lago e al di là del cielo. Guardare al di là. Come forse i due cigni silenziosi e il masso solitario hanno già imparato a fare da tempo.
E in tutto questo, di nascosto, sorridere.



giovedì 27 marzo 2008

Toccata e fuga

Stoccolma in un solo giorno. Troppo poco, in assoluto. Troppo, pensando alle mille cose che già così vorrei scrivere. Alla rinfusa, alcuni stralci del nostro breve soggiorno.

Treno regionale da Linkoping. Che poi equivale a un nostro eurostar, come qualità: tavolino ogni due sedili, posti comodi, porte automatiche che si aprono quando le sfiori. E soprattutto puntualissimo, spacca il secondo.
Iniziamo la nostra visita dal municipio, per poi attraversare la città vecchia in direzione ostello. Per le vie della città vecchia ci sentiamo davvero a casa. Ristoranti italiani dappertutto, scritte in italiano ad ogni angolo. E’ proprio vero che siamo il popolo più babbo, che appena vediamo un'insegna nella nostra lingua madre ci precipitiamo. Esemplare il cartello: ‘Ciao amico! Compra un calzone al forno e una coca-cola e buon appetito!’. Vuoi mettere? Come può un Italiano Vero resistere a cotanta dimostrazione di affetto e amicizia!? Che polli… Noi che siamo astuti, invece, non ci facciamo abbindolare e, come da tradizione, per il pranzo scegliamo un posticino tipico e caratteristico: il primo Mc che troviamo.

Ostello. Stoccolma sud, quella più vivace by night, la zona preferita da Kent. Ricorda un po’ la Budapest dei larghi vialoni, delle mille razze, della sporcizia per terra e delle macchine zarre.
Un buco. Probabilmente abusivo, gestito da due aitanti africani e dalle loro amichette. Due stanze in tutto, una è la reception e l’altra la camerata. Che poi più che una camerata è una cameretta: 4 letti a castello ammassati uno sull’altro, giusto lo spazio per il passaggio di una persona alla volta. La reception è una stanza con divani leopardati (su cui sono mollemente adagiate due sorelle), una credenza con il necessario per la colazione e uno schermo al plasma. Alla parete è appesa una mappa formato gigante dell’Africa. Una delle ‘sista’ ci chiede se abbiamo intenzione di andare in Tanzania, per vedere elefanti, giraffe e altri luoghi comuni. Quando un innocente ‘where is Tanzania?’ riecheggia nell’aria l'imbarazzo riempie la stanza e la paura di essere accoltellati sul posto si fa più marcata. Ma è solo un’impressione, la matrona sorride compiaciuta e ce la indica sulla cartina, elencando le principali attrazioni del luogo. Che tanto per accoltellarci avranno tempo tutta la notte.
Non ci sono armadietti per chiudere le proprie cose. L’affabile proprietario mi dice, con fare alla ‘ehi bello, di me ti puoi fidare!’, che se ho qualcosa di valore lo posso consegnare a lui, che provvederà lui a tenerlo al sicuro fino al giorno successivo. Mentre rispondo che, no grazie ma non ho oggetti di valore con me, me lo immagino investire in tempo zero i proventi del mio portafoglio-fotocamera-passaporto in una partita di colombiana purissima. Ha l’aria talmente affidabile che decido in seduta stante che la notte dormirò con la giacca addosso e tutto nelle tasche.

Il pomeriggio lo dedichiamo alla parte moderna della città e alla visita del Vasa, sfigatissimo vascello del ‘600 affondato appena uscito dal porto, 5 minuti dopo il varo.
Piazza principale, ci lasciamo trasportare dall’ eterogeneo flusso di gente che popola la zona dei centri commerciali. Si va da variopinti gruppetti di punk, a manifestanti arrabbiati (ebbene sì, anche in Svezia fanno le manifestazioni!), a giovani amanti dello shopping. Per inciso, cercando un bagno riusciamo a perderci dentro H&M, uno dei più grandi del mondo.

Sera. I pub della zona sono pieni di gente, ci sono un sacco di giovani in giro. Dopo avere cenato con calma, girato due locali e bevuto due birre guardiamo l’ora, pronti per tornare in ostello. Sono le 21.30. Com’è possibile? Presi dallo sconforto iniziamo a passeggiare avanti e indietro senza una meta, decisi a tutti i costi a non arrenderci al tempo che non vuole passare. Nel frattempo perdiamo e ritroviamo un portafoglio, impariamo a memoria un motivetto alla fisarmonica, seguiamo due ragazze fino allo sportello del bancomat e ci malediciamo per avere portato dietro gli zaini. Infine ci infiliamo in un altro locale e, da spettatori, ci godiamo le altrui sbornie.

Arrivata con fatica la mezzanotte rientriamo in ostello. I fratelli tanzaniani stanno cenando. E meno male che gli avevamo chiesto le chiavi per poter tornare tardi la sera! Essendo i primi ad andare a letto assistiamo durante la notte all’arrivo di tutti gli altri ospiti dell’ostello. Per ogni ospite che arriva si ripete puntualmente la stessa scena: apre la porta chiacchierando a voce alta, accende la luce della stanza, si accorge della nostra presenza nel letto, dice ‘Oh, shit!’ e rispegne la luce. Insomma, tra il via vai, la giacca che indosso con le tasche gonfie, e il timore di essere accoltellato non passo una gran nottata.

Finalmente suona la sveglia, devo tornare subito a Linkoping per il ‘Russia meeting’. Mentre mi vesto, scopro con stupore che i due proprietari stanno dormendo nel letto accanto al nostro.
Ebbene sì, l’ostello in realtà è la loro casa!!


venerdì 7 marzo 2008

Some friends: Il Pigro

Vorrei presentarvi alcuni dei miei coinquilini (per motivi di privacy i nomi propri sono stati sostituiti da simpatici soprannomi).
Prima puntata: Il Pigro.

Il Pigro, uno dei primi che ho conosciuto, è un ragazzotto svedese che ama molto prendersela comoda e passare i pomeriggi e le serate sdraiato sul divano davanti alla TV. Vive nella camera in fondo al corridoio, quella più vicina alla cucina (c’è chi dice che l’abbia scelta apposta, in funzione della minor distanza tra letto e divano, o tra letto e frigorifero). Dal momento che trascorre molto tempo in cucina è, tra i miei coinquilini, uno di quelli con cui parlo più spesso. E in queste prime settimane ho avuto modo di apprezzare la sua pigrizia sotto diversi punti di vista.

Il Pigro cucina sul divano. Oddio, cucinare è una parola grossa (ma questo vale anche per noi...vero?), diciamo che in genere si prepara dei panini. Inizialmente predispone tutti gli ingredienti necessari e li allinea sul ripiano che divide la zona-sala dalla zona-cucina; dopodichè si sdraia soddisfatto sul suo divano preferito, guarda caso quello attaccato al suddetto ripiano. Da questa posizione strategica riesce quindi a prepararsi da mangiare semplicemente allungando le mani, senza fatica alcuna.

Al Pigro piace molto lo sport. Guardarlo in TV, intendo. Praticamente ogni tipo di sport, ad eccezione del calcio. In particolare il Pigro ama molto gli sport invernali. L’altro giorno ho guardato insieme a lui la discesa libera di coppa del mondo, e ho scoperto che è un grandissimo estimatore di Bode Miller. Quando scende Bode, il Pigro, in botta da adrenalina, fa persino lo sforzo di mettersi seduto sul divano (di solito sta sdraiato, naturalmente) e lancia grida di incitamento al suo idolo: “Go go!! Yes, fuckin’ good, Bode!” Notate come egli sia svedese, ma in queste occasioni perda totalmente il controllo della sua persona, dimenandosi e urlando in lingua inglese. Quando gli ho raccontato che durante le olimpiadi invernali di Torino Bode Miller, da vero atleta, passava le sue serate a ubriacarsi al Tabata, il Pigro si è molto divertito.

Il Pigro è capace di passare l’intero pomeriggio a guardare in TV una televendita, solo perché il nostro telecomando non funziona e non ha voglia di alzarsi a cambiare canale.

Il Pigro non ama lavare i piatti. Devo ammettere, a sua discolpa, che anche io non apprezzo molto questo genere di attività, ma oh, va fatto, e lo faccio. Lui no, ha trovato un sistema migliore. Terminato il pasto si alza dal divano, apre il suo armadietto (qui ciascuno ha in cucina un armadietto personale, dove tenere il proprio cibo) e vi ammucchia dentro il bicchiere, le posate e il piatto appena usato. Luridi, naturalmente. Poi, soddisfatto, richiude l’armadietto, con lo sguardo sornione di chi la sa lunga. Passano i giorni e la pila di piatti sporchi nella sua credenza si fa sempre più alta e pericolante (vi risparmio i dettagli sugli odori che si sprigionano da lì dentro…). Soltanto quando non c’è più posto nemmeno per una forchetta il Pigro, a malincuore, tira fuori tutto e si mette a lavare.

Quando gli ho chiesto se c’era una scopa in casa il Pigro mi ha risposto che non lo sapeva e mi ha confessato, con sguardo complice, che lui dall’inizio dell’anno non ha ancora fatto le pulizie in camera.

Ma nonostante tutto (o forse proprio per questo) il Pigro mi sta simpatico. Tra i miei coinquilini è uno dei pochi con cui riesco a chiacchierare, andando oltre le solite frasi di circostanza. Gli altri passano le giornate chiusi in camera, emergendo solo per cucinarsi rapidamente qualcosa.
Insomma, quando alla sera ritorno da scuola stremato dopo una giornata di duro lavoro su MSN e Facebook, la certezza di saperlo lì sul divano, intento a prepararsi gustosi panini al formaggio, mi fa subito sentire meglio.
Sì, mi fa sentire a casa.

mercoledì 5 marzo 2008

Arrival (with some delay)

Notte. Un’aria gelida ci accoglie appena usciti dall’aereo, ancora prima di toccare con piede il suolo svedese. Limpida, pulitissima. Un’aria sconfinata. E’ la prima a darci il benvenuto.
Kent, subito dopo. Kent è il mio peer-student, gentilmente venuto a prenderci all’aeroporto. Ci porterà in macchina fino a Linkoping, distante circa un’ora. E’ un tipo spisso, di poche parole, per di più pronunciate a un volume bassissimo; ha un aspetto cattivo, ma in fondo in fondo dovrebbe essere un buono. O almeno, così ci diciamo io e albi per farci coraggio. Per rompere il ghiaccio gli facciamo notare il gran freddo della serata. Lui risponde con un “It’s a warm winter” che chiude la conversazione, ma che è diventato presto uno dei nostri tormentoni di questi giorni.

Autostrada, guardo fuori dal finestrino contemplando il primo assaggio di Svezia. Foresta da entrambi i lati, sterminata. Aguzzo (...) la vista nel buio, in fremente attesa, per cercare di scorgere i branchi di renne tintinnanti, le distese di procaci ragazze bionde e gli enormi magazzini Ikea che tutti dicono essere numerosissimi in questa parte del mondo. Macché. Foresta da entrambi i lati. Non una casa, non una luce. Di tanto in tanto un tir carico di legname, che il nostro condottiero sorpassa con agilità. Foresta. E poi la luna.
La conversazione langue. Kent dice qualcosa, piano, tra i denti. Non capisco, e il metal che spara la sua autoradio di certo non aiuta. Sarà una domanda o una descrizione/spiegazione? Temporeggio. Sì dai, mi dico, sembra una descrizione. Rivolgendomi a lui, approvo fingendo grande interesse e curiosità per la cosa appena imparata. Stupito, lui ripete la frase. Era una domanda.
E la conversazione torna a languire.

Arriviamo al Ryds, che sarà la nostra casa per i prossimi mesi. Ci hanno assegnato due korridor diversi, anche se vicini. In breve, un korridor è un appartamentino con 8 camere affacciate su un lungo corridoio, con in fondo una zona comune (cucina-sala-ripostiglio-altro). Ci separiamo, ognuno a casa sua.

Il mio korridor è al piano terra, vicino all’ingresso dell’edificio. Apro la porta, tutto tace. Kent mi istruisce, devo togliermi le scarpe prima di entrare, qui si usa così. Slego i miei improponibili scarponi (utilissimi…) e li ripongo sullo scaffale. Vicino, solo scarpe da uomo. Con invidia, immagino albi sistemare i sui scarponcini, altrettanto improponibili, accanto a una parata di stivali da sera e scarpe col tacco. Faccio una rapida esplorazione della casa. Alle pareti poster di ogni tipo: Michael Jackson, Guns N Roses, cartelloni colorati inneggianti in lingue sconosciute (probabilmente inglese) a party e feste locali. L’area comune è accogliente, anche se un po’ sporca. Tornando verso la mia camera leggo sulle altre porte i nomi dei miei coinquilini. Tutti nomi maschili: Olof, Alexander, Michael... Di nuovo, immagino albi leggere sulle porte del suo korridor nomi come Natasha, Samantha, Michelle. Entro in camera. Prima impressione positiva, mi piace. Stanchezza. Svuoto rapidamente il trolley, spengo la luce e vado a letto.
E’ allora che me ne accorgo. Niente persiane, no tende alle finestre. E le veneziane, anche da chiuse, non possono molto, poverette.

Sospiro.
Il lampione esterno dell’ingresso mi fa compagnia in questa prima notte svedese.


giovedì 14 febbraio 2008

Let's start

E’ arrivato.
Esaurito il conto alla rovescia, finalmente l’ultimo giorno.
Che poi a dire il vero è anche il primo.

Poche ore, solo poche ore.

Camera che si svuota, trolley che si riempie. L’illusione di fare entrare la mia camera in un trolley Roncato e in un paio di pacchi postali fosforescenti.

Sulla sedia i vestiti da indossare per il viaggio, quelli più pesanti, quelli più ingombranti. Maledetti 15 Kg.

Sulla scrivania l’elenco delle cose da fare in questi ultimi giorni. Sono quasi tutte spuntate, ormai.
Consegnare moduli trovare parenti firmare carte salutare amici andare in posta rilegare slides cena biomedici banca Milano mandare mail in Svezia fare bagagli ultimi acquisti Torino sciare bolletta fotocopie polletto indirizzo Kent-Jordan questura capelli documenti nonno peer-student spedire pacchi eccetera eccetera. Fatto.

Due cose, tra quelle dell’elenco, non ho fatto. Ripassare l'inglese e leggere gli articoli di elettrochimica che mi hanno mandato. Due cose, che sono poi i due motivi ufficiali per cui parto.

Guardare indietro a un periodo un po' sfortunato, guardare avanti. Per una volta, guardare avanti.

Essere i primi. I più affannati, forse. Ma anche quelli che, quando gli ultimi si preparano a partire, sono già via da due settimane.
Una vita.

Lasciare qualcuno a Torino e qualcun altro in giro per l’Europa. Qualcuno che ha tenuto il passo e qualcun altro (ehm…) che ha perso qualche colpo. Comunque viaggiare, trovarsi.

Lasciare un grazie a chi mi ha preceduto in questo viaggio e in questo esperimento virtuale.

E dietro portarsi delle istantanee, conservare dei flash. Una bicicletta riverniciata, le luci di Torino, il succo pesca e limone; una strana cena a lume di candela, il mio nome pronunciato con l'accento sbagliato, pigiami a rombi, un viso abbronzato dal sole.
E un sorriso malinconico attraverso il vetro oscurato di un taxi, un istante prima che parta.

Poche ore, solo poche ore.
Il momento di andare a chiudere il trolley e prepararsi.

Let’s go, e che l’avventura abbia inizio!