C’è che sono qui, in piedi, a guardare l’Oceano. Quell’Oceano che avrei tanto voluto attraversare, e che non ho avuto compagni né tempo per attraversare. Che non ho avuto il coraggio di attraversare. Quell’Oceano che avevo visto solo una volta, a nord, troppo a nord per essere vero, troppo a nord per potersi chiamare Oceano. Affacciato sul bordo di una scogliera a strapiombo sul mare, che ribolle centomilametri più in basso. 'Aqui, onde a terra se acaba e o mar comeca', scriveva il poeta. Il lembo di terra più occidentale del continente europeo. La fine dell’europa, insomma. La fine del mondo. E c’è che poi mi siedo, con le gambe a penzoloni nel vuoto, e da quassù provo a guardare al di là del mare. Che forse se strizzo gli occhi lo vedo, sì forse lo vedo lo skyline di Manhattan laggiù in fondo, lontano all’orizzonte, dritto davanti a me. Ma certo, prima di attraversare un oceano, bisogna conoscerlo, bisogna vederlo almeno una volta, capirlo. Perché è diverso, l’Oceano. E’ insieme spettacolo, timore e rispetto. C’è l’immensità, prima di tutto. Che evoca i marinai, gli esploratori e i galeoni carichi di dobloni e di scoperte, di schiavi e di spezie, che con i loro viaggi hanno allargato i confini del mondo. Ci sono queste onde fredde e lunghissime, che iniziano a rompersi lontano dalla costa e che sembrano formarsi apposta perché qualcuno le cavalchi. E poi c’è il rumore, sì, perché anche il rumore è diverso, dell’Oceano. Ma più di tutto c’è questo vento selvaggio, che mi porta via ad uno ad uno, come granelli di sabbia, tutti i cattivi pensieri.
E poi c’è che sono qui su una sdraio, al sole, di nuovo a guardare l’Oceano. Sulla terrazza di un baruccio in legno gialloverdeblu, in mezzo a una magnifica spiaggia di sassi bianchi famosa per il surf. Deserta. E c’è che questo bar è tenuto da due ragazze, che avendo pochi clienti si siedono per terrra, a piedi nudi, e iniziano a suonare e a cantare vecchie canzoni portoghesi e brasiliane, indifferenti al tempo che passa. Saudade. Se ne fregano di tutto, loro. Stanno qui, su una delle spiagge più belle del Portogallo, a suonare la chitarra guardando l’Oceano. Con il bar guadagnano quello che basta, non hanno grosse pretese, si accontentano di quello che hanno. Magari ogni tanto si innamorano dei surfisti australiani che vengono apposta dalla Gold Coast per cavalcare queste onde. I surfisti. Arrivano con la tavola sottobraccio e si fermano al limite della spiaggia. Immobili, a guardare il mare. Attenti, con lo sguardo seguono le onde, la direzione del vento, la posizione degli scogli. Studiano l’Oceano. E poi, dopo qualche minuto, decidono. Alcuni si voltano e tornano indietro, fino alla strada, fino alla macchina. Non hanno sentito il feeling che cercavano con quel luogo. Gli altri, beh, gli altri si tolgono la maglietta e si buttano. Ed allora, ragazzi, è uno spettacolo. E c’è che mentre sono lì al sole su quella veranda, mentre ascolto le ragazze cantare e guardo le evoluzioni dei surfisti, mi viene da pensare alla vita di quelle ragazze e a quella dei surfisti, e poi alla mia, di vita. A quello che sarà. Penso a lungo. E ad un tratto, mi viene fortissimo un pensiero. Una rivelazione, un’illuminazione improvvisa, stordente ma chiarissima, che mi lascia senza fiato come mai era successo fino ad ora. Il pensiero di avere sbagliato tutto nella vita. L’idea che forse non sono tutte sciocchezze e luoghi comuni e che forse siamo noi, e non loro, a non avere capito nulla. Chi lo dice che la felicità sia nell’avere un lavoro importante, soldi e successo in tutti i campi della vita? Chi lo dice che la felicità non sia fatta di cose semplicissime come il sole, il mare e una chitarra? O come una tavola da surf?
Avevo fame, ma per mangiare avrei dovuto alzarmi e soprattutto interrompere le ragazze che suonavano. No, non potevo rovinare quel momento, rompere quella specie di incantesimo. E allora c’è che sono rimasto lì, immobile, per tutto il pomeriggio, nonostante avessi fame, nonostante fosse tardi, nonostante non avessi visitato nulla nei dintorni. Nonostante tutto. E confesso che per un attimo, un solo istante brevissimo o forse infinito, io ci ho pensato. Lucidamente, in modo serissimo, ci ho pensato. Di non tornare a Lagos quella sera, né a Lisbona il giorno dopo, nè a Milano quello seguente. Di non tornare proprio. E di fermarmi lì al sole, in quella spiaggia, su quella terrazza di legno gialloverdeblu ad ascoltare musica portoghese e a guardare l’Oceano. Per sempre.
Avevo fame, ma per mangiare avrei dovuto alzarmi e soprattutto interrompere le ragazze che suonavano. No, non potevo rovinare quel momento, rompere quella specie di incantesimo. E allora c’è che sono rimasto lì, immobile, per tutto il pomeriggio, nonostante avessi fame, nonostante fosse tardi, nonostante non avessi visitato nulla nei dintorni. Nonostante tutto. E confesso che per un attimo, un solo istante brevissimo o forse infinito, io ci ho pensato. Lucidamente, in modo serissimo, ci ho pensato. Di non tornare a Lagos quella sera, né a Lisbona il giorno dopo, nè a Milano quello seguente. Di non tornare proprio. E di fermarmi lì al sole, in quella spiaggia, su quella terrazza di legno gialloverdeblu ad ascoltare musica portoghese e a guardare l’Oceano. Per sempre.